01 febrero 2019
01 febrero 2019

Settant'anni da Barone, il compleanno di Franco Causio

Una festa insieme ai compagni di Spagna 82

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Ei fu, nel bel mezzo di una partita a carte, come nell’arco di un’intera carriera: machiavellico e geniale, estroso e ammaliante, elegante e vincente. Su quel volo Alitalia di ritorno dalla Spagna e offerto da Sandro Pertini in persona c’è tutto di Franco Causio, durante LO “scopone”: sapeva che Dino (Zoff) avrebbe lasciato passare quel suo SETTE, mentre un Claudio Gentile di turno ad esempio – e come dargli torto dopo aver “sorseggiato” l’ebbrezza di stoppare Maradona – non avrebbe fatto passare nemmeno quello. E altrettanto bene sapeva che il «Vecio» Enzo Bearzot gli avrebbe letto nel pensiero per l’ennesima volta, archiviando così la pratica. Con buona pace del Pertini-mazziere, ma mica tanto, che solo qualche giorno prima festeggiava la rete del 2–0 contro la Germania ballando con re Juan Carlos di Spagna in tribuna d’onore. Vincere è l’unica cosa che conta, del resto, come gli aveva insegnato Giampiero Boniperti nel suo decennio e più con la maglia della Juventus. Eppure Franco – nonostante all’indomani alcuni dei principali quotidiani decantassero i sette del “BLOCCO-JUVE” anziché sei – non rincasava da Campione del Mondo nella sua Torino, bensì nella Udine che un anno prima lo accolse da leggenda vivente, e due anni dopo lo saluterà da icona, prima del suo ritorno a fine carriera nei panni di dirigente.
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Carismatico, altruista, umile, saggio, illuminista, orgoglioso. Così si potrebbe riassumere quasi un quarto di secolo di carriera: dal tanto caro tacco sino alle vette più alte del «Belpaese» e del calcio italiano. Tra gli insegnamenti del padre Oronzo, che campava la famiglia trasportando le bombole di liquigas nel paese a bordo della sua Ape-car, e il debutto a sedici anni in quella che all’epoca era la Serie C, nel Lecce del suo scopritore Attilio Adamo, che dopo averlo conosciuto tra NAGC («Nucleo Addestramento Giovani Calciatori») e Juventina gli fece disputare 3 partite all’eclissarsi della stagione ‘64/65 a causa di uno sciopero indetto dai titolari per gli stipendi in arretrato. Da giovane ambizioso simpatizzante per il Milan, cresciuto nei miti di Dino Sani e di Gianni Rivera – che vide in tv diventare GIUDICE della Germania nella magica notte dell’Atzeca e del quale prese il posto in “azzurro” al Mondiale successivo – a «Barone» del calcio italiano. Nel segno della scaltrezza volpésca di un certo Luciano Moggi, ovviamente, che lo scoprì durante un open-test della Juve in quel di Forlì, se ne innamorò in un quarto d’ora scarso e lo fece uscire subito dal campo per nasconderlo dai taccuini degli osservatori rivali: il sentiero battuto da Franco Causio in quasi due decenni e mezzo segue le orme del tipico «self-made-man verghiano», più che mai sagace nel veicolare il proprio talento come motore del successo, e orgoglioso nel non-ottenebrare le proprie radici e i valori autentici. Di chi è partito dal basso con la maglia della Sambenedettese di Alberto Eliani, che faceva allenare i suoi ragazzi in spiaggia, dato che lo stadio non era tanto distante dal mare, sino a raggiungere il tetto del mondo a trentatré anni, da calciatore nonché capitano dell’Udinese, insieme a Bearzot.
I due si conobbero intorno alla seconda metà degli anni ’60: Franco – che all’epoca non era nemmeno maggiorenne – scendeva in campo alla domenica con la Samb, in Serie C, e iniziava il suo lungo percorso in azzurro con l’Under–16 di Giuseppe Galluzzi. Il resto della settimana, invece, era dedicato esclusivamente ai provini: Eliani lo fa visionare dal Bologna e dal Mantova, e infine lo propone prima all’Inter e poi al Torino. A quei tempi sulla panchina granata sedeva un certo Nereo Rocco: che apprezza sì il talento del ragazzo, indubitabile e lapalissiano, ma dopo circa venti giorni di provino sentenzia «xe bon, ma no g’à fisico», e dunque decide di mandare il suo talentuoso apprendista – Bearzot per l’appunto – a comunicargli la definitiva bocciatura. Il “no grazie” legiferato dal «Paròn» potrebbe spezzare qualsiasi cosa, ma non la determinazione e la volontà ferrea di uno come Causio. Che infatti non molla, e anzi: raddoppia, com’è nel suo stile. «Camminavamo senza cercarci, eppure sapendo che camminavamo per incontrarci», diceva il grande Julio Cortázar – un capitolo piuttosto importante della letteratura latinoamericana – in un passo di «Rayuela», il suo più grande capolavoro. E di fatto la storia tra Causio e la Juventus nasce proprio così, da un raduno per giovani calciatori organizzato dai bianconeri a Forlì, a cui lo accompagna l’onnipresente Eliani. All’epoca la prassi dello scouting esisteva già, ma più che di dettagliati reportage e fascicoli infarciti di statistiche si componeva di una pesca a strascico alla ricerca del pezzo pregiato. Causio arriva in macchina da San Benedetto, entra in campo, ne fa un paio e poi... viene fermato: un signore lo intima a lasciare il campo. Lui ci rimane male, gli vorrebbe chiedere una spiegazione. Caso vuole che quel signore, oltre a essere un dipendente delle Ferrovie dello Stato, fosse anche il capo scout juventino tra il Lazio e le Marche: Luciano Moggi. Caso vuole che Franco Causio, nel fugace istante in cui pensò di aver fallito, al contrario stava per coronare ogni sua più profonda ambizione. La Juventus manda i suoi 007 a seguirlo in Samb-Bari la domenica successiva e in estate, mentre l’ormai prossimo «Barone» riposava a San Cataldo in attesa di notizie, lo convoca a Torino.
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Lì – nella sede di Galleria San Federico – lo accolgono Catella e Giordanetti, predecessori di Giampiero Boniperti nonché artefici dietro le quinte dello storico Scudetto bianconero del ’67, mentre il primo a trascinarlo all’interno del tanto decantato “Stile-Juve” sarà il capitano Tino Càstano, col quale condividerà la camera del convitto di Via Susa e i viaggi in tram fino al Vecchio Comunale. Lui, che conosce il sacrificio, fa tutta la gavetta necessaria. Silenzioso, ma soprattutto rispettoso: gioca con la Primavera, trova un fratello maggiore in Cinesinho e un “maestro di trucchetti” nel tedesco Helmut Haller, nella scalpitante attesa di ricevere una chance dall’allenatore Heriberto Herrera. Che arriva – un po’ a sorpresa – nel gennaio del ’68, in trasferta contro il Mantova, a distanza di un anno e mezzo dal suo approdo a Torino. Un momento di genuina e irripetibile realizzazione che Franco non hai mai dimenticato, al pari delle sue esperienze formative tra Reggina e Palermo, dove la Juve lo manda a farsi le ossa prima di fargli ricalcare i contorni di un sicuro avvenire.
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Un fato tanto ambito nei sogni, e guadagnato sul campo: nella grande famiglia dell’Oreste Granillo di Reggio Calabria – perché così amava definirla l’omonimo presidente – Causio incontra l’uomo che gli dà la sua prima impostazione tattica, Armando Segato, scuola «Grande Torino» e simbolo della Fiorentina scudettata del 55/56, che lo rende il suo «titolare in casa e tredicesimo in trasferta» nel campionato di Serie B. In quel di Palermo invece – primo banco di prova in massima serie nonché ultima tappa prima di rientrare alla Juventus – trova Carmine Di Bella: che gli insegna a giocare per la squadra, sul campo, e fuori da esso lo aiuta a comprendere quanto la vita vera sia molto di più che palloni di cuoio, tacchetti e rettangoli verdi. E infatti, ancora oggi, i ricordi del Causio SICILIANO sono impregnati di una “nerudiana” nostalgia: dai piccoli dettagli, come la granita al caffè con panna e brioche, ai momenti più sinceri e profondi, che riprendono forma nelle abitudinarie cene a casa dell’amico Giacomo Sinagra, o negli interminabili viaggi in treno tra Roma e Palermo per prestare servizio militare alla Compagnia Atleti della Cecchignola, con la leggenda romanista Agostino di Bartolomei ed il compianto Luciano Re Cecconi. Momenti e memorie d’un ragazzo divenuto uomo, pronto a dispiegare le ali per volare verso il successo. E verso la Torino bianconera ovviamente. Alla fine di un Palermo-Juventus di campionato (in cui un malcapitato Cuccureddu non riuscì mai a prenderlo) Causio viene avvicinato nientemeno che da Giampiero Boniperti, che non fa troppi giri di parole: «sei ancora nostro, a fine stagione torni». Il Palermo avrebbe dalla sua un diritto di riscatto da esercitare, ma in seguito alla retrocessione dei rosanero in Serie B, e ad una chiacchierata tra lo stesso Boniperti e Di Bella, Causio fa il suo ritorno in bianconero. Con lui altri due ragazzi talentuosi: Gianluigi Savoldi e Roberto Bettega (seguiti a ruota negli anni a venire dai vari Scirea, Tardelli e Cabrini).
Al rientro in quel di Torino la nobil-penna di Caminiti lo rinomina «Brazil», mentre Fulvio Cinti – di eguale levatura – opta per il «Barone», per come vestiva e come portava. In campo e fuori. Sulla panchina della Juventus siede Armando Picchi, che all’inizio non è che lo veda molto tra Haller e Capello – tant’è che i giornali iniziano subito a parlare di un trasferimento alla Lazio – ma alla fine lo fa esordire contro il Milan del «Paròn» Rocco. Il tecnico toscano lo chiama «Maestro», soprannome che in precedenza affibiò solo a un certo Mario Corso, ai tempi dell’Inter di Helenio Herrera, ma quella che sembrava poter essere la base di un ciclo – nel segno di coesione e rispetto – si chiuderà tristemente col grave tumore dello stesso Picchi; che morirà nel maggio successivo, peraltro alla vigilia della finale di Coppa delle Fiere tra Leeds e Juventus. Gli succederà il cecoslovacco Čestmír Vycpálek, zio di Zdeněk Zeman, che perderà quella doppia sfida europea coi «Peacocks» – così come la finale di Coppa dei Campioni con l’Ajax di Cruijff e l’Intercontinentale con l’Independiente di Bochini nel 1973 – ma si rifarà vincendo due Scudetti nei suoi tre anni sulla panchina juventina. Ma che si tratti di Vycpálek, del suo successore Carlo Parola oppure, mandando ancora più avanti il nastro, del ciclo di Trapattoni, Franco Causio è rimasto una CERTEZZA della Juventus: a testimoniarlo ecco 447 presenze, 72 gol, 6 Scudetti, 1 Coppa Italia e 1 Coppa UEFA. Oltre ai Mondiali del ’74 e del ’78; ai quali ha preso parte da calciatore bianconero nonostante la “corte serrata” da parte del Napoli, con il patron Ferlaino e Gianni Di Marzio che lo raggiunsero a Buenos Aires sperando di convincerlo a firmare il contratto.
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Della Juve restano tante cose: le telefonate dell’Avvocato Agnelli alle sei del mattino, per parlare della partita, gli ammutinamenti contro Boniperti, che pretendeva da tutti un taglio di capelli militaresco, mentre Causio per ripicca si fece spuntare anche un paio di folti baffi, i tanti trionfi in campo nazionale e le sconfitte internazionali, lenite poi dalla vittoria della Coppa UEFA. E poi, appunto, ogni singola persona da cui è passata la sua più che decennale juventinità: Moggi, Heriberto Herrera e Càstano, Picchi e Vycpálek, Parola e Trapattoni, Haller e Scirea, Cinesinho e Zoff.
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Molti alla fine degli anni ’70 fanno l’errore di dare Causio per finito, lui per pronta risposta giocherà ancora. Per altri sette anni. Da bianconero... a BIANCONERO: è l’inizio degli anni ’80 quando il «Trap» decide di valorizzare i talenti di Fanna e Domenico Marocchino, non rinnovando il contratto di Causio. Inter e Napoli si fanno sotto, ma alla fine la spunta l’Udinese grazie ad un blitz nel capoluogo meneghino del DS Franco Dal Cin. Che inizia malissimo eh, presentandosi con un’ora in ritardo al colloquio e rischiando di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, ma si rivela comunque decisivo nel chiudere tempestivamente l’affare. Bearzot lo avvisa nonostante in Nazionale, al suo posto, ci giochi un rampante Bruno Conti: «Mona, ti va in Friuli, a casa mia... Comportate ben che porto anca tì al Mondiale». L’allenatore Enzo Ferrari, suo vecchio compagno di squadra nel Palermo e reduce da una salvezza sofferta, gli chiede di aiutarlo a superare lo scetticismo della piazza e di portare la giusta mentalità in uno spogliatoio davvero tanto giovane. D’altro canto saranno proprio alcuni dei ragazzi della “covata” Primavera, su tutti Gianfranco Cinello e Paolo Miano, a consegnargli la fascia da capitano. E Causio ovviamente, ringrazia e ripaga, attraverso buone prestazioni – da leader – e sei gol, di cui uno contro il Bologna al Dall’Ara, che insieme all’1–0 firmato da Gerolin permise ai bianconeri di raggiungere la salvezza con un mese d’anticipo. La città di Udine lo ama, e lui ama reciprocamente Udine.
Dopo il Mondiale, durante una seduta di allenamento come tante altre, al Moretti, una volante dei carabinieri lo preleva e lo porta in prefettura: ad attenderlo c’era nientemeno che Sandro Pertini, con cui trascorrerà tutta la sera rimembrando le virtù del «Vecio» Bearzot e LO scopone sull’aereo di ritorno. Nelle due annate successive vede crescere, o passare, da Friuli talenti che definirli interessanti sarebbe un vero e proprio eufemismo: c’è la scuola italiana di Paolino Pulici, Luigi de Agostini, Massimo Mauro, Loris Pradella e Pietro Paolo Virdis da una parte, e quella dei brasiliani Orlando, Edinho e Zico dall’altra. Con quest’ultimo gioca spalla a spalla nel suo ultimo anno a Udine, dando spettacolo ovviamente... una volta in appena tre mosse, contro la Roma: lancio di Brini dalla porta, Causio aggancia a centrocampo e con un rapido tocco manda in profondità Zico, che lascia rimbalzare una sola volta il pallone per poi colpire e BATTERE Tancredi.
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Prima di tornare in quel di Udine come team-manager dello storico gruppo di Alberto Zaccheroni, tant’è che ancora oggi Franco non saprebbe definire quale fosse il tridente più forte tra Causio-Virdis-Zico e Poggi-Biehroff-Amoroso, va un anno all’Inter, poi al Lecce e infine alla Triestina, in Serie B. In nerazzurro ce lo porta Dal Cin, che con il patron Pellegrini e l’allenatore Castagner vuole costruire una squadra di esperienza: così arriva il «Barone», seguito dall’irlandese Liam Brady – suo compagno nella Juventus – e soprattutto il tedesco Karl-Heinz Rummenigge. L’Avvocato Agnelli lo fa chiamare subito da Boniperti per farlo desistere, riproponendogli addirittura un ritorno a Torino, ma lui rifiuta e a fine stagione si piazza al terzo posto in campionato – dietro al miracoloso Verona di Bagnoli e al Torino – oltre a raggiungere le semifinali di Coppa UEFA col Real Madrid. Il tutto dopo un gol ai sedicesimi contro i Rangers Glasgow, e uno decisivo ai quarti di finale con il Colonia. Che in porta aveva quel Toni Schumacher già incrociato nella finale del Mondiale di Spagna ’82. Al Lecce, invece, ci torna più che altro in nome di papà Oronzo e per una promessa fatta al presidente Franco Jurlano (mentre un certo Antonio Conte diventava il capitano della Primavera leccese) prima di chiudere con la Triestina in Serie B, a trentanove anni.
Gli sarebbe piaciuto allenare a Franco. Avrebbe voluto essere un maestro ed uno scopritore di “piedi buoni” – come fece in un Padova-Inter con Alessandro Del Piero – ma alla fine ha scelto la carriera da giornalista: dapprima Telemontecarlo, poi Mediaset, Sky Sport, dove ha seguito il lungo cammino della Juventus in Serie B al fianco del mitico Pierluigi Pardo e l’Italia di Marcello Lippi al Mondiali del 2006, e UdinewsTV per cui è opinionista, anzi opinion leader.
 
Oggi compie settant’anni un uomo di altri tempi: che ha iniziato dal basso e ha toccato l’empireo, che ha vissuto due vite bianconere – quella dello Stile Juve del «Barone» e quella del «Brazil» a Udine – guadagnandosi affetto e rispetto, che non ha mai dimenticato le sue radici e i valori più sacri. Compie gli anni CF7, e noi – in questo giorno di festa – siamo un po’ tutti dei devozionali Pasquale Amitrano in «Bianco, rosso e Verdone». Magari senza poster, ma con dei meravigliosi ricordi impressi nel cuore.

 

 

Daniele Pagani

 

 
 
 
 
 
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