15 febrero 2019
15 febrero 2019

Storie olandesi

L'Udinese e gli olandesi

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Dai libri di storia alla maglia bianconera

 

«L’arte del tutto» non è roba per tutti, ma la prassi degli olandesi: estro e disciplina, caos e geometria, van Gogh e De Stijl, Cruijff e Neeskens. Non si tratta di palesi contraddizioni, bensì di sorprendenti e infinite sfaccettature: che si attorcigliano, si mitigano e si completano, alimentando la sopravvivenza l’una dell’altra senza mai annullarsi. Gli olandesi sono fatti così, del resto: PRENDERE O LASCIARE. Nella vita come nel calcio. E infatti – non a caso – il rapporto tra la frangia ORANJE e il Friuli, ancor prima di legarsi al rettangolo verde e ad una maglietta bianconera, si nasconde tra le insenature della storia, a distanza di un secolo: dal piccolo comune di Tauriano, in provincia di Pordenone, da cui tanti nostri corregionali partirono alla volta dell’Olanda, sino ad arrivare a notti europee – in materia di calcio – nubìvaghe ma agrodolci. Dagli anni ’90 e dagli effetti della sentenza Bosman ai giorni nostri, in cui si vagheggia che la speranza lasci il verde per tingersi sempre più di arancione.

Il primo, agrodolce assaggio d'Olanda

 

L’animo ribelle e identitario di una meravigliosa favola provinciale unito alla matura consapevolezza di poter fare grandi cose. Come una BIG. Corre l’anno 1997 – della Juve finalista in Champions League, del contatto Ronaldo-Iuliano,di una notte parigina tutta all’italiana – e l’Udinese di Alberto Zaccheroni si appresta a prendere parte alla prima Coppa UEFA della sua storia grazie al quinto posto raggiunto nella stagione precedente. Ci sono tutti i presupposti per fare bene: si va dallo stacanovismo di Turci, Calori e Bertotto alla classe di Poggi e Amoroso. Dalla freschezza di Thomas Helveg e Giannichedda al killer-instinct di Biehroff, che di fatto ci trascinerà al terzo posto in Serie A – dietro alle ben più quotate Juventus e Inter – con 27 gol in campionato (quelli stagionali saranno 31). In Coppa UEFA, invece, il nostro percorso passa dai trentaduesimi di finale contro i polacchi del Widzew Łódź, che tra le proprie glorie vantano anche un certo Zibì Boniek e in porta ci mettono un aitante signorone di centonovanta e uno centimetri – non uno di più e non uno di meno – di nome Maciej. Tutti in patria lo conoscono per un incredibile record: l’aver vinto con quattro squadre diverse l’Ekstraklasa, massima divisione del calcio polacco. Qui in Italia d’altro canto è SOLAMENTE colui che ha trasmesso un’ereditaria passione e un sogno al figlio Wojciech; con ringraziamenti da parte di Arsenal, Roma e Juventus. Tornando a noi, comunque: lo passiamo il turno, e anche parecchio bene, grazie al 3-0 vergato in Friuli agli avversari polacchi dopo la sconfitta per 1-0 rimediata nella trasferta al Ludwika Sobolewskiego. Ai sedicesimi c’è l’Ajax: di Frank e Ronald de Boer, di Litmanen e di Laudrup, di van der Sar e di Andy van der Meyde. Di Morten Olsen, e non più di Louis van Gaal. Gli ajacidi s’impongono di misura all’Amsterdam ArenA con il gol di Daniel da Cruz Carvalho, il classico eroe che non ti aspetti – un’arte esclusiva dei portoghesi in materia di “futebol” – mentre la partita di ritorno al Friuli è qualcosa che sfiora le corde dell’epico: un braccio di ferro lungo novanta minuti tra il volere del fato, che tesse silenzioso, da astuto calcolatore qual è, e chi dal proprio canto al fato stesso si è dovuto arrendere, ma non senza aver lottato. E infatti nel primo tempo l’Udinese gioca un grande calcio: pressando, attaccando, OSANDO. E trovando il tanto agognato gol del vantaggio al 25’ con Poggi, “ulisseico” nello sfruttare un retropassaggio non proprio irresistibile di Sunday Oliseh per depositare il pallone alle spalle di van der Sar. Un po’ come fece non molto tempo prima il collega di reparto Biehroff contro il Milan: su errore – ironia della sorte – di un altro olandese, Winston Bogarde, che regalò ai bianconeri il gol del definitivo 2–1 mandando su tutte l’allora tecnico Fabio Capello, per quel loro “dannato vizio di voler giocare con il portiere”. E infatti sette minuti dopo ci pensa proprio lui, Oliver Biehroff, a indirizzare la partita sui sacri binari che conducono dritti all’Olimpo del Calcio, e ai libri di storia, su un pregevole suggerimento di Thomas Helveg. Tutto sembra assumere i contorni di un “lieto fine” pronto a materializzarsi in lunghi festeggiamenti, sia in campo che fuori, al triplice fischio dell’arbitro inglese Paul Durkin, ma è a dieci minuti dal traguardo che il georgiano Shota Arveladze sguscia via tra lo stesso Helveg e Bertotto prima di battere Turci con un terrificante tiro a incrociare. I sogni dell’Udinese scivolano via in quel momento, come sabbia dai palmi, mentre gli ajacidi arriveranno fino ai quarti di finale eliminando il Bochum agli ottavi, prima di essere sconfitti dallo Spartak Mosca. Resta un retrogusto agrodolce: nel segno di una notte in cui degli eroici esseri umani hanno indossato le ali di Icaro. Osando avvicinare il sole, combattendo ad armi pari contro gli Dei ajacidi. E poi resta l’orgoglio: d’un intero popolo, quello bianconero, che al fischio finale regalerà ai suoi beniamini una pioggia di scroscianti applausi. Un momento di grande affetto, di forza e di comune identità.

 

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"Figli" della sentenza Bosman

 

Proprio nell’estate del ’97, giusto pochi mesi prima del leggendario doppio confronto di Coppa UEFA con l’Ajax, l’Udinese vede approdare in Friuli il primo calciatore olandese della sua storia. Che arriva, guarda caso, proprio dagli ajacidi: la squadra di Louis van Gaal è nel bel mezzo di un lungo processo verso un ricambio generazionale – quanto mai necessario – e in seguito alla doppia sconfitta rimediata in Champions League contro la Juventus, nella finale del ’95 e nella semifinale dell’edizione successiva, cede Edgar Davids al Milan (sulla falsa riga di quanto fatto con Seedorf l’anno prima, acquistato dalla Sampdoria per 7 miliardi di lire). All’Amsterdam ArenA ci si inizia a domandare chi possa ereditare dignitosamente le chiavi del centrocampo ajacide, e un nome a dirla tutta ci sarebbe, come da prassi, se non fosse per il blitz dell’allora DS dell’Udinese, Carlo Piazzola, che con una trattativa lampo riesce a strappare ai trentatré volte campioni d’Olanda il ventenne Elijah Louhenapessy. Eli, nato e cresciuto ad Amsterdam, ma di origine molucchese, inizia a tirare i primi calci al pallone con il Door Wilskratch Sterk: squadra ad oggi dilettantistica che può farsi fregio di un passato nel professionismo, addirittura di un titolo d’Olanda nel ‘64, delle 120 e più presenze di Rob Rensenbrink e d’aver plasmato due talenti del calibro di Ruud Gullit e Frank Rijkaard, prima di entrare nell’academy dell’Ajax. Delle premesse piuttosto interessanti, ma complice la giovane età e una coperta abbastanza lunga per quel che riguarda il numero di giocatori presenti in rosa, Alberto Zaccheroni opta per mandarlo in prestito al Genoa, in Serie B. Da lì in poi, dopo 12 partite e 1 gol nella serie cadetta, Louhenapessy inizierà una serie infinita di prestiti: De Graafschaap, Salernitana e infine gli austriaci del Schwartz-Weiß Bregenz. Prima di abbassare l’asticella con i dilettanti del Tamai, in provincia di Pordenone, con il Sevegliano e poi ancora la Carrarese in C1, Pozzuolo, San Daniele, Aurora Buonacquisto, Buttrio, Lauzacco – nella C1 di calcio a cinque – e infine il Bearzi in terza categoria. Alla sua ultima stagione nel calcio giocato, che si è conclusa con la conquista dei play–off, i giornali locali lo hanno definito «un esempio in campo e fuori per tanti giovani». Ed è qui che Eli ha deciso di adempiere a questo suo innato talento, iniziando un bel percorso come allenatore delle giovanili: prima con il Remanzacco, e poi con gli “Allievi provinciali” della Serenissima di Pradamano. Perché il Friuli gli ha dato tanto, anche senza l’atteso debutto con la maglia bianconera. Discorso diverso per il portiere Harald Wapenaar e il centrocampista Henry van der Vegt, sbarcati in Friuli a un anno di distanza dall’arrivo di Louhenapessy e “figli” della sentenza Bosman. Del primo, nonostante abbia racimolato appena due presenze ufficiali – di cui una parecchio “prestigiosa” contro la Juventus – tornano alla memoria la sua lodevole determinazione, il suo spirito competitivo e un carattere estroverso e generoso. Prima del ritorno in patria nell’Utrecht, l’avventura inglese con il Portsmouth e il finale di carriera con Vitesse e Sparta Rotterdam. In quanto a van der Vegt, invece, arrivò dal Willem II dopo quattro stagioni al PEC Zwolle ritirandosi nel 2002 a causa di gravi problemi cardiaci dopo aver messo a registro 29 presenze ufficiali e 1 gol in maglia bianconera contro il Cagliari, nel 1999. Un’esperienza di vita, quella italiana, che Henry ha voluto ricordare con queste parole, nel 2011: «Qui ho davvero vissuto il periodo più bello della mia carriera, sono fiero di aver vestito la maglia dell’Udinese: è una squadra che avrò sempre nel cuore».

 

Arancione speranza

 

Nell’Udinese di oggi militano in contemporanea ben quattro calciatori olandesi: un record, almeno in termini numerici. E peraltro sono tutti difensori: a distanza di quindici anni dal ritiro forzato di Henry van der Vegt ci ha pensato Bram Nuytinck a restituire vigore all’animo oranje – ormai sbiadito dallo scorrere incessante delle lancette – sotto la maglia bianconera. Il difensore di Heumen ha iniziato la sua carriera con il N.E.C. compiendo tutta la trafila nelle squadre giovanili, dal 2001 al 2009, prima di debuttare verso la fine dell’anno in una partita di KNVB beker con il Groningen. Nel gennaio del 2010 sopraggiunge anche l’esordio in Eredivisie e la carriera di Bram diventa un’escalation continua: prima il posto da titolare fisso (e sarà così per altri due anni) con grinta e dedizione, poi le chiamate con la «Jong Orange» per le partite di qualificazione all’Europeo di categoria del 2011 e infine le big d’Olanda pronte a darsi battaglia per accaparrarselo. Ma Bram non ha scelto né l’Ajax, né il PSV, né il Feyenoord per proseguire la sua carriera: ha scelto il vicino Belgio per vestirsi del biancomalva dell’Anderlecht, e in cinque anni è passato da uno status di “forestiero” benvoluto all’essere considerato il padrone di casa con 3 Jupiler Pro League e altrettante Supercoppe Nazionali aggiunte alla già colma e stracolma sala trofei del Constant Vanden Stock. Infine ecco l’Udinese, con cui sono ormai prossime le cinquanta partite ufficiali. Nel segno di una meravigliosa mezza rovesciata contro la Lazio risalente allo scorso settembre, poi sentenziata dalla Lega come autogol di Badelj. Ma deviazioni o meno, la strada sembra proprio essere quella giusta. Sulla medesima scia di Nuytinck, solo un anno dopo, sono approdati in Friuli Hidde ter Avest e William Troost-Ekong: il primo ha esordito nel professionismo con la maglia del Twente neanche maggiorenne, totalizzando cento presenze con il club di Enschede e diventando così, tra 2014 e 2018, il secondo calciatore più giovane nell’intera storia della Eredivisie a raccogliere il maggior minutaggio prima del compimento dei vent’anni (il primo posto resta saldamente presidiato da un certo Seedorf), mentre Troost-Ekong, dopo un lungo percorso di crescita tra le «Academy» di Bishop’s Stortfort, Fulham e Tottenham ha girovagato tra Groningen, Dordrecht, Gent e Haugesund – in Norvegia – prima di trovare la consacrazione con il Bursaspor, e nell’ultimo Mondiale russo con la Nigeria; Nazionale che ha scelto di difendere in onore dei genitori nonostante le 3 presenze raccolte tra l’Under–19 e l’Under–20 oranje. E infine ecco Marvin Zeegelaar, di origini surinamesi e appena approdato all’ombra della Dacia Arena in prestito dal Watford. Cresciuto tra Ajax e Volendam, club che tra vari talenti ha dato i natali calcistici ai fratelli Mühren, Arnold e Gerrie, e negli anni successivi anche all’ex interista Wim Jonk, Zeegelaar ha fatto il suo debutto nel professionismo con gli ajacidi grazie a Marco Van Basten, che siccome il fato è un aracnico tessitore, lo ha fatto debuttare proprio con il “suo” Volendam in un match di Coppa d’Olanda nel novembre del 2008. Dopo aver assaggiato il sapore dei palcoscenici europei l’anno successivo, contro lo Slovan Bratislava in Europa League, va in prestito all’Excelsior, per poi firmare un quadriennale con l’Espanyol nel giugno del 2011, che lo aggrega alla formazione B. Infine l’Elazığspor, tornato in Süper Lig nel 2012 dopo due promozioni consecutive, poi il prestito al Blackpool, dove gioca con Tom Ince, il figlio d’arte del leggendario Paul, e il ritorno in Turchia alla fine del semestre. Prima di spiccare il volo per quella che si rivelerà la sua terra promessa: il Portogallo, prima con il Rio Ave e poi con lo Sporting Lisbona, con cui collezionerà cinque presenze in Champions League in un girone di ferro e ai limiti del proibitivo per i «Leões», comprendente Real Madrid, Borussia Dortmund e Legia Varsavia. Storie simili e diverse, di sedentari e di girovaghi. Che viaggiano su binari paralleli, sì, ma che hanno raggiunto una fermata comune per tentar di “legare il diavolo con un cuscino”, o più semplicemente per provare a restituire all’Udinese le sue notti magiche. Magari in un giorno non troppo lontano...

 

 

Daniele Pagani

 

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