16 mayo 2019
16 mayo 2019

Luis Pentrelli, un'ala senza precedenti

L’argentino arrivò in Italia con Sivori, Angelillo e Maschio e divenne un protagonista nell’Udinese di allora

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Nella cultura popolare argentina il modo di dire «TOCO Y ME VOY» conserva intrinseco l’innato talento di sapersi adeguare con elasticità al divenire del tempo, diventandone per certi versi la più anarchica e sfuggente nèmesi. Il «dai e vai» fugge dal legiferare delle lancette rifugiandosi nella durata di un tango, oppure di una canzone rock. E perfino in una romantica seppur effimera passione, come decise di arrangiarlo la famosa attrice Moria Casán al sorgere di questo millennio. Per Luis Pentrelli invece, il vero pioniere di questa nozione, non si trattava di donne da sedurre e conquistare o di chitarre da strimpellare. E anzi. A dirla tutta non ne diluiva più di tanto il concetto: né in minuti, né in ore. Bastavano pochi, pochissimi secondi. Giusto il tempo di ricevere il pallone e scaricarlo sul compagno di squadra più vicino, e libero possibilmente, per poi riproporsi in ricezione sulla corsa. Nella filosofia di Pentrelli, raccontata poi su «El Gráfico» dalla finissima penna di Osvaldo Ardizzone intorno alla prima metà degli anni ’60, dopo il ritorno di Luis in Argentina, il ricevere e il dare – e viceversa – erano due componenti consequenziali e senz’ombra di dubbio inseparabili. Un sincero invito a ricercare l’essenziale, nel bel mezzo di un’epoca in cui il fútbol argentino veniva dilaniato dalle sue stesse idiosincrasie ritmiche e da diverbi di spiccia retorica in merito alle questioni tattiche. Il postulato tralasciatoci in eredità da un uomo semplice. Che semplice, per puro riflesso, lo era anche nel suo modo di intendere il gioco.
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Volendo riallacciare al «credo» calcistico di Pentrelli i vari riadattamenti della sua nozione si potrebbe filosofizzare e teorizzare di tutto, tranne che la sua avventura nella nostra Udine sia stata un’effimera passione. Luis arriva in Italia nel 1957, reduce dal bronzo vinto nel Campeonato Sudamericano l’anno prima, sì, ma decisamente adombrato dal contemporaneo approdo nel calcio italiano di alcuni dei suoi più illustri e prodigiosi connazionali: Omar Sívori, Antonio Angelillo e Humberto «El Bocha» Maschio, tanto per esser precisi. Quel tanto che basta per comprendere appieno il tasso di fenomenologia della nostra Serie A in quegli anni. Cresciuto nel Boca Juniors, con cui ha debuttato nemmeno ventenne nel 1951, giocando sette partite a causa di un aspro sciopero indetto dai giocatori titolari, Pentrelli hai poi optato per la tranquilla Sarmiento de Junín e infine per il Gimnasia La Plata, la squadra della sua città. Quella meno blasonata, meno decantata e meno nobilitata, fattispecie se messa a confronto coi rivali cittadini dell’Estudiantes. Ma pur sempre una palestra di vita che dopo quattro anni permetterà a Luis di muovere la prua verso l’Italia. Cinque anni di PREPARAZIONE, dopo gli esordi con la maglia del Boca, per cinque anni di CONSACRAZIONE, indossando quella bianconera dell’Udinese. Un’ala destra atipica e senza precedenti: che anteponeva all’edonismo di un dribbling l’attacco dello spazio verticale, e alla gloria personale l’intelligenza di un passaggio in più.
Nella sua prima stagione a Udine, con Giuseppe Bigogno alla guida della squadra, Pentrelli diventa sin dal prìncipio una colonna portante del gruppo che conquisterà uno storico decimo posto in Serie A, in concomitanza con Milan e Inter. Segna sette reti, di cui una proprio ai nerazzurri e un’altra decisiva al Bologna, componendo un tridente letale e imprevedibile con Lorenzo Bettini, rientrante dalla Lazio, e Bengt Lindskog, l’altro straniero della squadra. L’anno dopo cambia la guida tecnica, con l’arrivo sulla panchina bianconera di Luigi Miconi, ma non la sostanza: Luis eguaglia il numero di gol della stagione precedente risultando peraltro il nostro migliore marcatore, a pari merito con Bettini, e contribuendo non poco al raggiungimento dell’obiettivo salvezza. Non è Sivori, né Maschio, né tantomeno Angelillo, ma per i tifosi dell’Udinese declina in un vero e proprio idolo: il forestiero divenuto sceriffo della città, che nei successivi due anni contribuirà ad altre due salvezze, con trentaquattro presenze per stagione e dieci gol complessivi. Escludendo la Mitropa Cup ovviamente, nei cui almanacchi risplendono ancora le 4 marcature in 3 partite della stagione 1960–1961: due a testa contro i cechi dello Sportovní Kladno e gli austriaci del LASK Linz nella prima fase, seguita purtroppo dall'eliminazione in semifinale per mano dello Slovan Nitra. Alla fine saranno CENTOCINQUANTACINQUE presenze distribuite nell’arco di cinque campionati, con Luis che nonostante le cinque reti segnate non riuscirà a salvare la squadra dalla retrocessione in cadetteria al suo ultimo anno a Udine: quella che lui stesso, in diverse interviste, definirà la più grande delusione della sua carriera.
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Nell’estate del 1962 il presidente della Fiorentina Enrico Longinotti, dopo aver scelto il figliol prodigo Ferruccio Valcareggi per la panchina, rimane sedotto e ammaliato dallo stile di gioco di Pentrelli: tutto fatto di raziocinio e di dribbling, di esuberanti finte e di brucianti accelerazioni. Ad onor del vero, Luis, in quel di Firenze, ci arriva per due ragioni ben precise: in primis per sostituire il connazionale Miguel Montuori, costretto a ritirarsi l’anno prima a causa di una pallonata al volto durante un’amichevole a Perugia, che gli provocò il distacco della retina e poi, soprattutto, per fare da mentore al gioiello Almir, talento brasiliano che venne definito dagli addetti ai lavori dell’epoca il «Pelé bianco». Molto più di una semplice consolazione, si direbbe, dopo il mancato approdo in viola di Amarildo Tavares, sul quale si era scatenata una bagarre senza esclusione di colpi proprio tra la Fiorentina e la Juventus, bloccata poi dalla Federcalcio per le esorbitanti cifre. Pentrelli si alterna come interno o come ala, in compagnia di altri due ex calciatori bianconeri, Luigi Milan e Francesco Canella, aiutando la squadra ad ottenere un buon sesto posto in campionato. A fine stagione le presenze saranno undici, impreziosite da una rete contro il Genoa. Ed è così che Luis, all’alba delle trenta primavere, decide di lasciare il calcio italiano e tornare in Argentina.
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Nonostante il fanciullesco amore per l’Independiente, con cui sostenne anche un provino da bambino, salvo poi finire al Boca dopo un colloquio tra suo padre, acceso tifoso «boquense», e Juan Evaristo, il dt della Quinta División, Pentrelli sceglie il Racing. «El Mono», la scimmietta, tutto finte e gambeta, lascia il posto ad un calciatore nuovo: un dieci «retrasado», arretrato in cabina di regia, reso scaltro dai tanti anni di sopravvivenza tra i catenacci delle difese italiane. Saranno proprio lui, in maniera più teoretica, e l’amico di sempre, Humberto «El Bocha» Maschio, sul campo, a dispargere i rigogliosi semi di quel Racing Avellaneda passato alla storia come l’«Equipo de José». Quella formidabile squadra che nella seconda metà degli anni ’60 riuscirà a vincere un titolo d’Argentina, una Copa Libertadores e la Coppa Intercontinentale sotto la guida di Juan José Pizzuti. Luis decide di ritirarsi nel 1967, dopo due esperienze in Colombia con l’Atlético Nacional de Medellin e il Millonarios, con la maglia del Chacharita Juniors: la stessa squadra che diede i natali calcistici a un certo Renato Cesarini, del quale ereditò negli anni a venire la profonda vocazione per crescere giovani calciatori nelle divisioni inferiori. La sua energica passione, unita alle eccezionali competenze, lo porteranno a collaborare come assistente di campo con il solito Maschio, all’Instituto de Cordoba, poi con José Pastoriza, al sempre caro Independiente, e infine al Talleres. Nel curriculum, come da prassi, non sono mancate nemmeno le esperienze come osservatore: dall’Argentina giovanile con Carlos Pachamé alla Nazionale maggiore con Carlos Bilardo, fino al River Plate del patron Alfredo Devicce. Dopo la fallimentare spedizione della Selección al Mondiale russo tanti tifosi, tra i più anziani, hanno rivendicato a gran voce il ritorno al «TOCO Y ME VOY». Perché in fin dei conti Pentrelli è uno di quei calciatori che hanno cambiato qualcosa nel gigantesco macrocosmo del calcio, pur senza essere brandizzato dall’alone di leggenda tipico di figure come Cruijff o Di Stéfano. Perché Moria Casán avrà anche dato un’interpretazione tutta sua al concetto di «dai e vai». Ma qui, nella nostra Udine, Luis, non può che essere ricordato come molto di più che una passione effimera.



Articolo a cura di Daniele Pagani