01 marzo 2019
01 marzo 2019

Una vita di corsa

La carriera e la storia di Geronimo Barbadillo

Primo giorno di dicembre del 1985: tempo di focalizzarsi sui buoni propositi in vista dell’anno nuovo, come da prassi, ma senza perdere di vista la dodicesima giornata di campionato. Tra le mura casalinghe dello stadio Friuli va in scena il derby Triveneto tra l’Udinese di Luís Vinício e l’Hellas Verona scudettato di Osvaldo Bagnoli, oramai brevettato per sognare in grande, grazie alle scorribande pentatletiche del tedesco Hans-Pieter Briegel e al talento alla dinamite pura di Preben Elkjær Larsen. «Eroe cercasi», si potrebbe pensare, perché agli scaligeri basta poco più di un quarto d’ora per spezzare il silenzio del pareggio grazie ad una perfetta incursione aerea di Maurizio Volpati. Serve una reazione, il divenire della provvidenza, o più che altro un uomo in grado di incarnarla. Ed è qui che entra in gioco «El Patrulla» Barbadillo. Che basta e avanza.
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La «gambeta» certamente non è più quella dei tempi migliori, a cavallo tra la leggendaria Copa América vinta con il Perù nel 1975 e la glorificazione raggiunta in Messico al sorgere degli anni ’80, quando Gerónimo vestiva ancora la maglia del Tigres UANL, ma quella capigliatura in stile afro pare declinarsi in un elisir di lunga giovinezza. Un serbatoio da cui attingere nel momento del bisogno, e contenente una smisurata energia, un po’ come Sansone. Mancano una manciata di minuti alla fine del primo tempo: Gerry arpiona il pallone all’altezza del centrocampo, poco prima gli hanno annullato un gol. S’invola, dritto per dritto come un treno, mentre dalla cabina di commento è l’inconfondibile voce del goriziano Maurizio Calligaris ad avvolgerne la corsa, commisurando le parole più virtuose ed enfatiche per raccontare tanta determinazione. Salta il primo, poi il secondo, e infine si concede pure il lusso del terzo, propiziando la rete del pareggio di Criscimanni (poi giudicato autogol di Fontolan). Non ha dei tacchetti, ha un paio di ali sotto le scarpette. Chi lo ferma quando parte!? La risposta è ovvia: nessuno, tant’è che nel secondo tempo serve un assist delizioso per il 3-1 di Carnevale, che a distanza di qualche anno dal ritiro lo vorrà al suo fianco, non più come partner di attacco, bensì nei panni di direttore tecnico delle giovanili bianconere, prima di siglare la rete del 4-1 con una zampata da «nueve» di razza.
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Quella partita – finita 5-1 per noi – declinerà nell’indiscusso simbolo della coesione di un gruppo capace di agguantare la salvezza dopo un’incredibile rimonta in campionato. Prima con Luís Vinício e poi, dal mese di gennaio, con Giancarlo De Sisti. Senza Zico, certo, ma con un Barbadillo in più. Perché la vita friulana di Gerónimo – che in Irpinia diverrà «El Tartufòn», ma per i messicani resterà sempre e solo «El Patrulla», per via della sua somiglianza con l’attore Clarence Edwards III (protagonista della celebre serie tv poliziesca «Patrulla Juvenil», andata in onda negli anni ’70 in America Latina) – non si può ridurre solo a una ventina di apparizioni in bianconero. La storia di Barbadillo è quella del classico figlio d’arte, resa atipica dalle più singolari sfumature. La storia di chi ha rifiutato i consigli di papà Guilhermo, di lasciar perdere il calcio per diventare un medico, e la visione del mondo del suo popolo, per cui «la suerte guía la vida y el fútbol». Che in Messico è diventato leggenda. E che in Italia, qui nella nostra Udine, costruirà ognuna delle sue seconde vite: dal rettangolo verde a cinquantasei ettari di vigneto, da gestore di un ristorante a San Giovanni al Natisone – l’«O’Gerry» – ad osservatore di talenti in Sudamerica.
 
In quell’anno (1985/1986) l’Udinese riuscirà a salvarsi con 25 punti – davanti a Pisa, Bari e Lecce – e Barbadillo segnerà un’altra rete prima di quella con l’Hellas, all’inizio di ottobre, in una partita stracolma di emotività e inesorabilmente legata alla classica LEGGE del «gol dell’ex»: al Partenio contro l’Avellino, sinonimo di casa per tre anni. Gerónimo, infatti, era arrivato in Irpinia dopo il Mondiale dell’82, dove peraltro giocò anche contro l’Italia, formando fin dal principio un tridente letale e al contempo meraviglioso insieme a Ramón Díaz e Alberto Bergossi. «Mi dissero di venire in Italia e che lì avrei giocato per una squadra da quarto, quinto posto», ha raccontato in alcune interviste.
Tuttavia non si può dire che fu amore a prima vista: «arrivavo dal Messico, avevo vinto tanto, ero un giocatore importante anche in Nazionale. Non appena sbarcati a Fiumicino salimmo in macchina. Mi dissero: è qui dietro, arriviamo subito, e invece andavamo, andavamo... Arrivai nella zona di Avellino e vidi, ancora vivissimi, i segni del terremoto di due anni prima, una totale devastazione». Confrontandosi con la moglie, la stessa sera del suo arrivo, Gerry viene sfiorato dall’idea di non perdere nemmeno tempo a disfare le valigie per tornarsene di corsa in Messico. E se il pensiero lo sfiora e basta, avvinghiandosi ai ricordi più nostalgici con le sue unghie intrise di disfattismo e malinconia, alla prima in Serie A contro il Torino di Gigi Radice ci pensa Paolo Beruatto a NON sfiorarlo troppo gentilmente, con una gomitata talmente forte da stordirlo fino a inibire le sue capacità di parlare e respirare. In aggiunta – e compreso nel prezzo – c’è l’animo fumantino del patron Antonio Sibilia, che dopo le sconfitte non si risparmiava di certo dal vergare le più colorite paternali, sempre in rigoroso dialetto, ai suoi ragazzi, talmente era ambizioso e passionale.
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A questo capitolo della storia già si potrebbe cicalare di «inizio della fine», ponendo un punto e a capo sull’avventura italiana di Barbadillo, ma no: perché Gerónimo tutto d’un tratto inizia a dimostrare di non essere solo un velocista da test di Cooper, come nel ritiro di Pontremoli, quando sbalordì tutti correndo 3350 metri in soli dodici minuti. No, affatto: il ragazzo del barrio Fiscal 4, a El Callao, quartiere in cui è cresciuto giocando a calcio per strada grazie all’ereditaria passione del padre Willy, una vera e propria istituzione dello Sport Boys negli anni ’50, INGRANA la giusta marcia. Corre come un 8 e segna come un 11, inventa come un 10 e dribbla come un 7. Sterza, cambia direzione, a volte danza con il pallone, eludendo le asfissianti marcature avversarie come ha sempre fatto con la scomoda e imperante visione del fato sancita dal suo popolo. Alla fine saranno 81 partite e 10 gol in tre anni di permanenza al Partenio, di cui uno contro il Milan in un sonoro 4-0 casalingo. Oltre agli omaggi dell’allora presidente della Roma Dino Viola, che a sua detta «sentiva parlare troppo di Platini, e troppo poco di Barbadillo». Prima di cederlo a noi in cambio di 1,4 miliardi delle vecchie lire Sibilia aveva rimpinzato le casse del Tigres UANL con un assegno da 850mila dollari. Non proprio noccioline, anzi: per l’esattezza circa 500mila in più di quello che l’Atlético Madrid sborsò per accaparrarsi un certo Hugo Sánchez nel 1981, dal Pumas UNAM.
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Un esborso economico ripagato e al contempo giustificato, perché per tutto il corso degli anni ’70 Gerry ha vissuto una carriera in costante escalation, rendendosi un’istituzione calcistica tra Sudamerica e America Latina: da quando esordì appena diciottenne con lo Sport Boys, squadra di papà, nel 1971, fino ad arrivare ai trofei incettati in Messico con il Tigres. Passando dalla Copa América vinta nel ‘75 con il Perù – che non può non essere menzionata – in compagnia di campioni del calibro di Héctor Chumpitaz, Hugo Sotil, Juan Carlos Oblitas e Teófilo Cubillas. Un successo che ai tempi rese la «Blanquirroja» la terza forza del continente, dopo Argentina e Brasile, insieme all’Uruguay. E Gerry, del resto, che la maglia della Nazionale l’ha indossata per tredici anni, fa parte di quella ristretta cerchia di privilegiati campioni che l’hanno resa tale. C’era ai Mondiali dell’82, da SENATORE: a distanza di poco tempo dalle prestigiose amichevoli internazionali che il Tigres giocò con l’Argentinos Juniors e i New York Cosmos, in cui Barbadillo oscurò prima il talento di Maradona – che all’epoca era ancora «El Pelusa» e non «El Pibe de oro» – segnando una doppietta e poi fece ammattire sua maestà, il «Kaiser», Franz Beckenbauer, a tal punto da spingere la dirigenza dei newyorkini ad offrire un milione di dollari per portarlo negli States. Non c’era a quelli del ‘78, per due ragioni ben precise: la prima è che il Tigres aveva bisogno di lui per vincere il campionato, la seconda è che Gerry non voleva proprio saperne di andare in Argentina per fare la riserva di lusso a Juan José Muñante del Pumas, sei anni più anziano, per quanto potesse nutrire un profondo rispetto nei suoi confronti.
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In Messico ha vinto una coppa nazionale, due campionati (quello del ’78, appunto, ed uno nel 1982), si è affermato come terzo miglior goleador nell’intera storia del club e nel giorno del suo addio la dirigenza del Tigres ha deciso di ritirare la camiseta numero 7: un’onorificenza per pochissimi eletti che permette al misticismo di fluire con fare torrenziale, dissetando l’epica del calcio e qualsivoglia leggenda a esso legata. Come il tifoso degli «auriazules» che dopo la finale di campionato del 1982 vinta ai calci di rigore contro l’Atlante decise di chiamare il figlio – nato proprio in quel giorno – Mateo Gerónimo. In onore del portiere Mateo Bravo e di Barbadillo, che segnò il penalty decisivo, per l’appunto. Dall’Alianza Lima, dove lo volle il presidente Luis Banchero Rossi, colui che ha fatto da motore all’industria del pesce in Perù e negli anni ’70 ha monopolizzato il calcio locale con i suoi contratti plurimilionari, alla Sanvitese del patron e amico Mario Della Santa, militante nel campionato di Promozione. Lì, dove i soldi non avevano più valore, nonostante le offerte della Pro Gorizia (Serie C2) e di alcune squadre svizzere e austriache, Gerry ha deciso di appendere le scarpette al chiodo nel 1988.
 
La vittoria più importante, tuttavia, per Gerónimo, è arrivata a distanza di vent’anni dal ritiro: nel 2008, quand’è riuscito, probabilmente con un dribbling dei suoi, a sconfiggere il male peggiore. Il ristorante «O’Gerry» ha chiuso i battenti tempo fa, poiché la passione per il fútbol ha prevalso nuovamente. Oggi Barbadillo si diverte seguendo i talenti sudamericani, visiona dvd, prepara report, mentre il figlio Gerry Giuseppe e il genero sono dei procuratori sportivi. Qui a Udine ha scelto di viverci, di mettere radici, perché ripensando alle sue due stagioni in bianconero le rughe del suo volto finiscono inevitabilmente per incresparsi generando un sorriso: «l’Italia mi ha dato tanto e sono grato soprattutto all’Udinese e ai Pozzo, perché mi hanno dato l’opportunità di lavorare nelle giovanili dopo il ritiro: non è un caso che qui a Udine abbiamo scelto di viverci». La gambeta e la pettinatura afro non ci sono più, ma in diversi casi anche l’occhio si è rivelato veloce quanto la gamba...

 

 

Daniele Pagani