10 aprile 2019
10 aprile 2019

Abel Eduardo Balbo

La bellezza dell'essenziale

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Nel divenire calcistico di Abel Eduardo Balbo, da Empalme Villa Constitución, hanno sempre coabitato due prìncipi capitali, assimilabili a una dottrina religiosa e predisposti per natura a soppesarsi su due piatti della stessa bilancia. Da una parte l’incessante macchinare del fato: che scrisse Independiente e all’ultimo secondo sentenziò Newell’s. Che nubìvagò Verona, ma scelse Udine. Dall’altra l’ammaliante bellezza dell’essenziale, volitiva nell’anteporre il pragmatismo all’estetica, abbinata a un silenzioso killer instinct. Il tutto raccolto in una folta chioma corvina: distinta ma raminga per i difensori, rapace e tassativa nel trasformare in oro qualsiasi pallone, utile e non, in particolar modo nei pressi dell’area di rigore. Nell’immaginario collettivo la figura di Abel Balbo non può che scollinare e trascendere dai numeri e dalla mera statistica, per essere precisi SESSANTASEI gol in 136 partite tra Serie A e Serie B, al fine di nobilitarsi come uno dei primi, grandi investimenti dell’era presidenziale di Gianpaolo Pozzo. Ne verranno fuori quattro campionati tinti del bianconero friulano, due nella massima serie del nostro calcio e altrettanti giocati in cadetteria, con un biglietto di sola andata verso la gloria eterna e l’Olimpo del fútbol. Sempre badando più all’utile che al dilettevole, alla forza della sostanza piuttosto che ad un effimero colpo di fioretto. Com’è sempre stato nel suo stile.
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Estate del 1989: l’Udinese torna in A dopo due anni tra i cadetti, mentre il Brasile si appresta a fare da paese ospitante per la trentaquattresima edizione della Copa América. Sul primo volo diretto verso la terra di «Ordem et Progresso» si imbarca anche il nostro direttore sportivo di allora, Marino Mariottini. Che per la cronaca si stava recando sì, al Serra Dourada di Goiás per seguire l’Argentina, ma per osservare più da vicino Néstor Sensini: il vero nome cerchiato in rosso sul taccuino del DS, che in otto anni ha scritto più di qualche semplice capitolo di storia del nostro club. Come Balbo, del resto, che entra in campo con la tre sulle spalle: insolito per un attaccante, ma solo perché all’epoca i numeri di maglia venivano assegnati in base all’ordine alfabetico del cognome e l’unico demiurgo che aveva il diritto di licenziare questa formula era un certo Diego Armando Maradona, EL DIEZ. Abel, convocato da Carlos Bilardo per la Copa América dopo le 12 reti stagionali nel River Plate di César Luis Menotti, in quella partita non segna, ma evidentemente qualcosa del suo stile riesce comunque a fare breccia in Mariottini. Eppure per portarlo a Udine non bisogna parlare con i «Millionarios», bensì con il Verona. Di fatto il patron scaligero Fernando Chiampan era riuscito ad accaparrarsi il cartellino di Balbo solo l’anno prima, in seguito al debutto assoluto di Abel con il Newell’s – impreziosito dagli 8 gol segnati e la vittoria del primo titolo d’Argentina – ma durante il ritiro estivo era stato il tecnico Osvaldo Bagnoli a sentenziarne la bocciatura. Troppo acerbo, figurarsi poi se messo a paragone coi suoi connazionali Caniggia e Troglio. Balbo a Verona ci tornerà solo per le visite mediche di rito, prima di migrare verso nord-est. Direzione Udine.
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Nella nostra città Abel trova LE sacre sponde: un ambiente omologato per maturare senza eccessive pressioni, in un calcio tanto duro quanto strategico, ma pur sempre un porto sicuro per poter crescere in totale tranquillità. Un elemento, quest’ultimo, sempre pronto a sciogliersi in una grintosa esultanza sotto la nostra Curva Nord. La prima stagione in Italia ha un retrogusto dolceamaro: Abel esordisce in uno strano incrociarsi del destino, contro la Roma, ma in quella occasione è il palo colpito nel finale a frapporsi tra un tagliente colpo di testa e il primo urlo di gioia. Sfortuna, ma solo questione di tempo. Perché Balbo ce l’ha nel sangue, il gol, e talvolta la sua essenza liquida declina nel suo sinonimo: prima rete contro il Milan futuro campione d’Italia, a San Siro, dopo una scoppiettante progressione palla al piede iniziata da centrocampo e infiocchettata dall’uno-due con Mattei, poi una doppietta all’Inter al Friuli, dove Abel è boia, giuria e giudice di un pirotecnico 4-3 per noi. Ne segna 11 in totale, peraltro senza mai calciare dagli undici metri, ma non basta all’Udinese per restare in Serie A.
 
 
Abel in tal senso, ancora oggi, sostiene di aver vissuto con dolore solamente due momenti in tutta la sua carriera, lunga un decennio e mezzo più uno: la retrocessione in Serie B, in virtù di un energico e sincero sentimento da sempre nutrito verso il nostro bianconero, e i Mondiali statunitensi del ’94, nel cui grembo maturò la seconda, storica squalifica di Maradona – sempre per 15 mesi – e una scottante eliminazione agli ottavi di finale dell’Argentina per mano della Romania. Argentini e friulani, tuttavia, hanno in comune quel sano e indomito vizio di rimboccarsi subito le maniche. E se quel qualcosa va storto è sempre lecito provare, riprovare, e ancora riprovare. Al primo anno in cadetteria Balbo segna e raddoppia vestendosi da leader e trascinatore, in campo e nello spogliatoio, concludendo la stagione da capocannoniere in concomitanza con Francesco Baiano (Foggia) e Walter Casagrande (Ascoli). Le reti di Abel sono 22, ma l’Udinese chiude all’ottavo posto, rimandando così di un anno il tanto ambito ritorno in Serie A. Ma l’occasione arriva sempre per coloro che sanno conferire valore al tempo. Per la panchina viene scelto Franco Scoglio, emotivo nel rettangolo verde e risoluto in sala stampa, mentre in campo ci vanno ottimi giocatori come Marronaro, Giuliani, Dell’Anno, Sensini e lo stesso Balbo, per l’appunto. Abel verso dicembre continua a tribulare per un ginocchio malmesso, tant’è che realizzerà solo 11 gol in quella stagione – e SOLO si fa per dire – ma quello d’inizio marzo contro la Casertana, su rigore, dopo un digiuno durato due mesi, è uno dei più importanti segnati con la maglia dell’Udinese. All’ultimo atto noi corsari al Dorico di Ancona, il Cosenza cade a Lecce: è festa grande, è Serie A.
Di pari passo con il nostro tanto ambìto ritorno nella massima serie del calcio italiano, e conseguente ingaggio di Albertino Bigon – uomo dello Scudetto del Napoli tre anni prima – nei panni di nuova guida tecnica, nasce a Udine il mito di «El Killer». L’apodo, del resto, o nomignolo per dirlo in gergo, è sempre stato un appannaggio esclusivo degli argentini: nel fútbol come nella sfera sociale, alla costante ricerca della più intangibile e singolare sfumatura per caratterizzarsi gli uni dagli altri. Ma non per Balbo, il cui soprannome è frutto di una leggenda germinata, prosperata e fiorita nel corso dei suoi tredici anni di calcio italiano. Dalle Alpi Giulie al Colosseo, dal Teatro Regio di Parma fino ai viottoli adiacenti al Ponte Vecchio di Firenze: l’eco di «El Killer», nella sua etimologia stessa, non lascia spazio ad interpretazioni di strascico. Nella sua ultima stagione bianconera Abel promette ai tifosi la salvezza, e tiene fede al suo giuramento. Come? Ovviamente a suon di gol: 21 per essere precisi, al pari di un grandioso campione del calibro di Roberto Baggio e dietro a Beppe Signori (26 reti, con la Lazio). Ai quali però si somma un ultimo: anche questo promesso alla tifoseria, più che mai fondamentale nello spareggio play-out vinto contro il Brescia, sul campo neutrale del Dall’Ara. Il 14 giugno del 1993 l’Udinese riesce ad agguantare la salvezza grazie alle reti di Abel e Dell’Anno, tra le quali si colloca il meraviglioso gol Olimpico – dalla bandierina del corner – di Alessandro Orlando. «Io l’avevo promesso, volevo fare un grande partita e il gol: sono tornato con l’Udinese in Serie A, e qui volevo che la squadra restasse, abbiamo regalato alla nostra tifoseria ciò che merita», dichiarerà Balbo a fine partita. Un voto mantenuto a colpi di SOSTANZA. Che non si è rivelato trasparente agli occhi delle big del calcio italiano.
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Nell’estate del ’93 le offerte non tardano a pervenire sulla scrivania di Pozzo, ma anche in questo caso il fato è puntuale nel metterci lo zampino. Già di per sé iniziare la propria carriera professionistica nel San Nicolás, squadra della cittadina che ha dato i natali ad un certo Omar Sívori, molto probabilmente l’attaccante più grandioso che l’Argentina abbia mai ammirato, è una curiosa e benevola coincidenza. Come lo è in fin dei conti, a 17 anni, ritrovarsi a bordo di un auto diretta a Buenos Aires per sostenere un provino con l’Independiente, e infine fare improvvisamente rotta verso Rosario. Grazie alla sorella maggiore di Abel, Claudia, che lavorava come segretaria per conto di Mauricio Nudemberg: avvocato e grande appassionato di calcio, nonché vicepresidente del Newell’s Old Boys, dove Balbo è cresciuto da centrocampista, segnando 32 reti in 15 partite nel suo ultimo anno con la Primavera. Prima di essere plasmato come un attaccante di razza, perché all’epoca «un nove si vendeva sempre più a caro prezzo di un cinque». E se qualcuno nei dintorni dello stadio «El Coloso del Parque», oggi intitolato a Marcelo Bielsa, ne ha avute ben donde di ragioni per puntare le proprie fiches sul talento e sull’evoluzione di Abel, allora l’offerta dell’Inter risulta un’ovvia conseguenza. Di non-ovvio c’è solo il finale: i nerazzurri sono i primi a formulare una proposta concreta all’Udinese, Abel pranza addirittura a casa del patron Pellegrini e firma un contratto, ma qualcosa va storto. La moglie del presidente interista, addetta alla burocrazia, storce il naso per la calligrafia del bomber argentino e la vicenda si chiude con degli eventi da fare invidia al Teatro dell’assurdo. Questione di scelte: perché Balbo da quel giorno ha cambiato la sua firma e l’Inter al suo posto decise di acquistare Dennis Bergkamp, grande astro nascente del calcio olandese. Ma contrariamente alle solite discussioni, galleggianti intorno al classico «what if», nutrite e alimentate da consunti «se» e «ma», per ottenere una risposta basterebbe scendere 573 chilometri più a sud dello Stivale. Perche alla «Scala del Calcio» Balbo sarebbe potuto essere, il NOVE. Mentre a Roma, sponda giallorossa, lo è stato difatto.
Ai nastri di partenza della stagione 1993–1994 il neo presidente romanista Franco Sensi sceglie Carlo Mazzone come nuovo allenatore, ma pronti–via ecco sorgere il primo grattacapo, con la numerologia a far da assoluta e casuale protagonista. 13, esattamente TREDICI: sono i miliardi di lire sborsati un anno prima dall’ex patron giallorosso Giuseppe Ciarrapico per assicurarsi Claudio Caniggia dall’Atalanta, e sono anche i mesi di squalifica inflitti dalla giustizia sportiva a «El Hijo del Viento» per essere risultato positivo a un test antidoping successivo a Roma-Napoli del 21 marzo 1993. E qui il fato decide ancora una volta di macchinare: serve un centravanti, uno alla Balbo, e Franco Sensi non se lo fa ripetere due volte, scucendosi di tasca un assegno da 18 miliardi. «La Repubblica» il 28 luglio lo etichetta come una rischiosa scommessa per la causa giallorossa, Abel invece ripaga la fiducia a suon di reti: TREDICI, per esser precisi, risultando anche il miglior marcatore della squadra. E sulla falsa riga viaggeranno anche le successive quattro primavere romane: restano memorabili i gol alla prèmiere contro la Juventus ai piedi della Sud, nel derby su assist di Fonseca e le triplette vergate a Inter e Napoli. In particolar modo quest’ultima, realizzata indossando la fascia di capitano al braccio nel settembre del 1997. Abel nelle sue cinque stagioni a Roma va sempre in doppia cifra, è LA certezza, per un totale di 87 marcature in 167 partite disputate con la maglia giallorossa. Il suo addio all’Olimpico declinerà più semplicemente in un arrivederci al nuovo millennio, e conseguente vittoria dello Scudetto e della Supercoppa Italiana nell’èra targata Fabio Capello. Due anni prima di lasciare la Città Eterna (nel 1996) Balbo convinse un suo piccolo fan, ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Bambin Gesù, ad accettare le cure dopo aver trascorso in sua compagnia un’intera mattinata. Nel duemila invece, nel giorno del suo ritorno nella Capitale, convincerà un certo Gabriel Omar Batistuta a sposare la causa giallorossa. E per «Batigol» di certo non mancavano le offerte da parte delle big del calcio mondiale. In due anni Abel si limiterà a far da comprimario e senatore dello spogliatoio, tant’è che giocherà appena 15 partite, ma senz’ombra di dubbio quei due trofei portano anche la sua firma.
 Nell’estate ’98 Balbo decide di lasciare sia la Roma che la Selección Argentina, quest’ultima a seguito del Mondiale ospitato e vinto in casa dalla Francia: il terzo della sua carriera dopo Italia ’90 e USA ’94, a cui si aggiungono anche due Copas América (1989 e 1995). Abel lascia l’albiceleste dopo nove anni, 37 partite e undici reti: la più importante per distacco resta quella segnata all’Australia, a Melbourne, in occasione degli spareggi qualificatori al Mondiale statunitense. Lascia dopo esser passato da tre CT del calibro di Carlos Bilardo, Alfio Basile e Daniel Passarella. Lascia definitivamente il testimone ad un certo Hernán Crespo, suo compagno anche a Parma: la sua nuova casa, dove farà da fratello maggiore a «El Valdanito». Nella sua annata al Tardini Abel vince la Coppa Italia e la Coppa UEFA con Malesani in panchina e nonostante un minutaggio ormai risicato si toglie la soddisfazione di punire Inter e Atlético Madrid nelle rispettive semifinali. Prima di tornare a Roma fa tappa a Firenze, dove un certo Giovanni Trapattoni gongola solo all’idea di ammirarlo in viola, per concedersi lo sfizio e il lusso di debuttare e segnare in Champions League. Lo fa a pochi giorni dal suo trentaquattresimo compleanno, e festeggia con una doppietta in scioltezza al Barcellona: tanta roba, ma solamente un antipasto se paragonata al gol marcato al Franchi contro il Manchester United, Campione d’Europa in carica e sconfitto con un 2-0 a colpi di tango da Balbo e Batistuta.
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L’ultima soddisfazione arriva nel 2002, ovverosia l’opportunità di appendere gli scarpini al chiodo indossando la maglia della propria squadra del cuore: il BOCA, che gli concede le ultime passerelle d’addio nonostante l’annata trascorsa tra le file del River Plate di César Luis Menotti. Sempre a proposito di illustri ex. A distanza di sei anni dall’addio al calcio giocato Abel viene ingaggiato come allenatore del Treviso per sostituire Luca Gotti, ma le poche garanzie disposte da una dirigenza economicamente instabile lo convincono a licenziarsi dopo neanche un mese dal suo arrivo: già tanto, considerando che le prime lettere di dimissioni le rassegnò dopo appena 10 minuti dall’inizio del primo allenamento. Gli va meglio nel novembre 2011, quando rileva l’Arezzo in Serie D e lo trascina dall’ultimo al sesto posto in campionato. Magari in onore dello zio, Néstor Rassiga, che fu il suo primo allenatore nell’Empalme Villa Constitución, dove iniziò la sua carriera giovanile dai 6 ai 14 anni. O magari per i suoi genitori Eduardo e Beatriz, rispettivamente operaio metallurgico e casalinga, che hanno donato due valori al figlio: educazione, e infatti Abel si è diplomato al liceo della sua città e non ha mai bigiato la scuola, unita alla licenza di ambire pur mantenendo la testa salda sulle spalle. Dogmi che si raccolgono in quella folta chioma corvina, quella di Abel Balbo, detto «El Killer»: baciato dal fato, campione d’altri tempi. ESSENZIALE, perfetto.
Articolo a cura di Daniele Pagani